Ricomincio il mio blog apponendo una sorta di conclusione (anche se l'argomento non è affatto esaurito) alla "Suite esquilina", che ci ha accompagnati nel corso della scorsa estate.
Piazza Vittorio Emanuele II, o semplicemente "Piazza Vittorio", è la conclusione più adeguata possibile.
Proprio oggi ho realizzato questo reportage e quando l'ho concluso avevo il cuore esaltato, scaldato e spezzato al tempo stesso. Alla fine del nostro viaggio capirete perché.
Storia.
Quella che oggi appare come una delle piazze più devastate di Roma un tempo era uno dei luoghi più chic e all'avanguardia della città: una piccola Parigi per una piccola capitale che sognava di diventare grande, grandissima.
Non mi crederà mai alcuno, ma il progetto di via Nazionale e dell'Esquilino fu sviluppato consultandosi con il barone Hausmann, l'autore dei boulevard parigini.
Questa cartina ricorda a tutti la regolarità estrema dell'impianto stradale.
Piazza Vittorio, in particolare, è la prima piazza romana a NON includere chiese: è un evidente sintomo della rinomata ostilità, negli ultimi decenni dell'Ottocento, tra il Papato e il neonato Regno d'Italia, considerato a tutti gli effetti come un occupante da chi all'epoca occupava il Soglio di Pietro.
Ulteriore segno di sfida sta nelle dimensioni: è la piazza più grande della Roma umbertina (316 x 174 m): molto più di Piazza San Pietro prima degli sventramenti fascisti.
La costruzione di Piazza Vittorio, e di tutta la zona fino a via Nazionale, è l'impresa più grandiosa della Roma di Umberto I: tutto comincia con il piano regolatore del 1873. La Roma di Pio IX è una città piccola, aggrovigliata nelle sue strade, tutte localizzate nel Campo Marzio, e malarica, tanto: i Savoia con quel piano regolatore impiantano ex abruptu la mentalità positivista nella città più immobile di sempre.
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Camille Corot, 1826, Veduta di Roma dai giardini Farnese. |
I soldi sono pochi, ma la volontà e l'ambizione tanto abbondanti e così si chiede aiuto al barone Haussmann, che pochi anni prima aveva riservato a Parigi lo stesso trattamento, e questi consiglia di circondare la città antica di nuovi quartieri dirigenziali e moderni, sventrando dove è possibile anche all'interno. Nessuno però se la sentì di calcare la mano nel Centro e così si aprirono strade meravigliose e alto-borghesi come corso Vittorio Emanuele, via Arenula, viale Trastevere, le quali però ancora oggi hanno l'aria di quinte teatrali giustapposte a un ambiente non loro. Fu il Fascismo a sventrare davvero il Centro, come ben si sa.
A quanto ho avuto modo di intravvedere, la costruzione della nuova Roma comincia dal quartiere de Merode (quel tratto di via Nazionale tra Piazza Venezia e largo Magnanapoli) e continua parallelamente tra via Nazionale e l'Esquilino.
In un contesto di abnorme speculazione edilizia (i palazzinari esistevano già all'epoca!) la costruzione di Piazza Vittorio Emanuele fu affidata al giovanissimo architetto Gaetano Koch (1849 - 1910).
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Koch è il gentiluomo a sinistra. Al centro c'è Pio Piacentini (padre del famosissimo Marcello e autore del Palazzo delle Esposizioni) e a destra c'è Manfredo Manfredi (autore, tra le altre cose, del Palazzo del Viminale). |
Quando i lavori per la Piazza cominciano (ché di questo solo c'interesseremo) l'architetto ha 35 anni: è giovane e lavora per la
Società per l'Esquilino. A quanto mi risulta suo è il disegno della Piazza e specificatamente suoi sono i due palazzi centrali dei suoi lati lunghi.
Stile (in generale).
Nel periodo della ricerca di uno stile nazionale che potesse servire da "catechismo visivo" per l'unificazione anche dei cuori (
Fatta l'Italia ora restano da fare gli Italiani rimane un detto valido, a mio parere, ancora oggi), Gaetano Koch sceglie l'approccio tosco-romano, calato però in una visione piemontese.
Non deve stupire questo: i destinatari di questi quartieri sono borghesi e funzionari che hanno seguito il Re da Torino passando per Firenze.
A tale proposito può risultare utile un confronto tra Piazza dello Statuto a Torino, Piazza dell'Indipendenza a Firenze e la nostra Piazza che può agevolmente essere effettuato su Google Maps.
Noterete che, nonostante le differenze, c'è una certa continuità stilistica e di volontà di traduzione in termini lineari del linguaggio architettonico aristocratico.
La stessa borghesia che abitò a Firenze e la lasciò per seguito Vittorio Emanuele II, arrivata a Roma, poté scoprire un particolare gusto per l'ornamento classicheggiante - questo, sì, tipicamente romano - e il risultato è particolarmente: al di là della bellezza dell'idea e della qualità del lavoro, a noi contemporanei rimane come primo colpo d'occhio la retoricità inconcreta di questi luoghi, che oggi sembrano quinte teatrali di un teatro in rovina.
Analisi.
Studiando Piazza Vittorio e l'Esquilino in generale si deve tenere a mente che il nucleo più antico è nato grazie alla speculazione edilizia che sopravanzava addirittura la pianificazione del piano regolatore, che veniva poi aggiustato di conseguenza. A quanto mi risulta, Roma avrebbe dovuto mantenere la sua cintura di ville suburbane, tra cui c'era anche Villa Palombara, che sorgeva proprio dove ora c'è la Piazza. Invece è stata lottizzata e sbancata e il risultato è quello che vediamo oggi.
Questa speculazione era protetta dalla Banca Romana: quando nel 1893 essa fece crack (ne parleremo nel post su Villa Lazzaroni) l'intero sforzo edilizio romano andò in frantumi e molti cantieri rimasero a metà e larga parte degli edifici costruiti rimase senza servizi. L'Esquilino fu uno dei posti più toccati da questa tragedia e così i borghesi cominciarono lentamente a trasferirsi a Prati.
Ciò può spiegare, in un certo qual modo, perché oggi la zona è così degradata e di quei piemontesi più nessuno è rimasto. Ma non basterebbe, in effetti, perché poi la zona conobbe un rilancio ai primi del Novecento fino all'epoca fascista, anche se perse molta della sua aria raffinata, diventando progressivamente più popolare (ma mai troppo popolare).
Volendo riservare ai miei lettori solo il meglio, limiterò la mia analisi solamente agli edifici più interessanti e, se è possibile, inserirò più di un confronto prima-e-dopo servendomi del sito "Roma Sparita".
Lato lungo est: visione generale.
Osservando con un unico colpo d'occhio il lato lungo est possiamo notare che nei due complessi che sono riuscito a comprendere nello stesso scatto le facciate sono estremamente movimentate e a dominare è una volontà monumentale, sommamente monumentale: nel palazzo di destra il balcone centrale è così importante da essere sostenuto da un colonnato come se fosse una sorta di fregio templare.
I palazzi di Koch.
Il palazzo di sinistra, opera virtuosistica del Koch, ci offre una articolazione decisamente insolita, "eclettica".
Ciò che rende speciali i palazzi di Gaetano Koch sono proprio sull'attico, in quelli che sembrano spazi da belvedere al coperto, ma che non so precisamente identificare: mi fanno pensare a dei ristoranti (possibile?). E' da notare in ogni caso l'estrema volontà monumentale che pervade quegli ambienti: colonne, timpani, fregi. Il Classico rimane sempre l'unico termine di paragone, anzi di sfida, per chi vuole affermare a livello politico e sociologico qualcosa di nuovo; almeno fino all'inizio del "Secolo Breve".
Dall'altro lato, esattamente opposto, sta il secondo complesso dell'architetto: stilisticamente le differenze sono minime e principalmente sono limitate all'ornato.
Osservando più da vicino ci accorgiamo della estrema raffinatezza della superficie di questo complesso: ogni piano presenta una differente incorniciatura e sotto al cornicione maggiore possiamo persino osservare un elegante fregio ispirato a quello della Farnesina.
Notiamo inoltre nel corpo centrale dell'attico una interessante alternanza di nicchie conchigliate e finestre a tutto sesto.
Avvicinandoci al complesso dal giardino ci accorgiamo in maniera più decisiva che la volontà monumentale è esplicitata anche dalla combinazione del lieve aggetto delle estremità laterali e del corpo centrale con i balconi articolati come fregi templari: le colonne qui non reggono, infatti, un arco, ma i davanzali in un perfetto sistema trilitico alla greca; notiamo infine la piena intenzionalità di questa soluzione dall'uso del bugnato rustico (se ne gusti il ritmo alternato) a coprire i limiti dei corpi sporgenti.
Questi palazzi sono templi di razionalità dove la lezione piemontese, borghese e funzionale, si incontra con la lezione romana, ancora impregnata di neoclassicismo nella sua versione purista e aristocratica e monumentale.
A tale proposito voglio indurre il confronto con Palazzo Salviati e Palazzo Corsini, entrambi alla Lungara.
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Palazzo Salviati: è l'uso del bugnato a interessarci particolarmente. |
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Palazzo Corsini: è l'uso del bugnato unito all'articolazione dei balconi e delle mensole a interessarci particolarmente. Se non mi seguite provate a immaginare al posto delle finestre del piano terreno una fila di archi e al posto delle mensole dei balconi delle colonne... |
Decorazioni.
L'occhio è subito catturato dalla ricchezza di decorazione del complesso e soprattutto dalla presenza nella parte superiore delle cornici delle finestre del primo piano, a metà dello spazio, di una testa di Minerva impostata come sorta di pietra di volta da cui partono due festoni.
Inoltre notiamo nei due cornicioni al di sopra l'uso delle onde alla greca e di una decorazione a conchiglie molto particolare, di cui per ora non mi riesce di trovare un parallelo.
Sotto ai portici.
Sotto ai portici osserviamo una certa uniformità: ogni palazzo presenta infatti delle paraste intersecanti un mini-fregio e reggenti archi a tutto sesto; rimangono poi delle lunette dove sussistono delle finestre.
Se l'effetto in generale è molto regolare, quasi banale, Gaetano Koch riesce a renderlo più divertente:
Osserviamo infatti l'uso, al posto dell'arco, di mensole fitomorfiche binate e nei rettangolari spazi intermedi osserviamo l'apparizione del motivo a nastro intrecciato e delle rosette a cassettoni: trattasi di elementi di diretta derivazione classicheggiante che si possono osservare molto agevolmente tra le rovine del Foro o nell'area archeologica tra il Ghetto e il Teatro di Marcello.
Si guardi ad esempio a questo mosaico da Merida:
O quest'altro dagli Horrea Hepagathiana di Ostia:
E questo frammento marmoreo dall'area archeologica tra il Teatro di Marcello e il Ghetto:
La rosetta, comunque, è uno degli stilemi maggiormente utilizzati in assoluto, perlomeno a Roma.
La lineare mobilità del risultato mi pare anticipare a tratti il venturo jugendstil nella sua accezione romana ed è per questo che mi trova dubbioso l'affermazione di una contemporaneità di realizzazione della piazza, perché ciò significherebbe avere un architetto geniale, Gaetano Koch, circondato da architetti più banali e ciò andrebbe in contraddizione, io credo, con lo spirito prammatico e funzionale dei Piemontesi:
Osserviamo infine la grazia lineare con cui delinea gli spazi terminali dei portici dei suoi complessi: laddove il resto del portico non ha volte, qui Koch inserisce delle cupole con tanto di archi a tutto sesto, arricchiti al loro interno dal solito motivo a rosette.
A presto con la seconda puntata.