mercoledì 24 settembre 2014

Cartolina - Policlinico Umberto I da Scienze Statistiche.

Di Simone A., "L'Autore".

Tornando da un incontro piacevolissimo presso Scienze Statistiche, ancora deliziato e godendomi i dolci raggi del sole autunnale, mi sono trovato di fronte al retro di uno dei palazzi del complesso del Policlinico Umberto I.

La costruzione del complesso comincia nel 1883 come sede distaccata dell'Università di Roma, situata all'epoca a Sant'Ivo alla Sapienza, la famosa chiesa del Borromini a Corso del Rinascimento.
Osservando il retro di questo complesso, però mi viene spontaneo pensare a una datazione dello stesso successiva, ma non troppo. 


Non ho dati, le mie informazioni sono più che scarse, ma una datazione alla seconda metà degli anni Ottanta dell'Ottocento, o meglio ancora agli anni Novanta mi risulterebbe più congeniale, soprattutto per le somiglianze che ravviso con il complesso centrale di Villa Lazzaroni (so che vi avevo promesso un articolo, ma le parole giuste non mi vengono ancora), rimasto incompleto a causa del coinvolgimento del barone Michele, presidente della banca romana, nel famoso scandalo del 1893.

Corpo centrale di Villa Lazzaroni, il "Casino Lazzaroni": come si può notare la partizione decorativa è simile. L'effetto finale è più spoglio solo perché nel frattempo il barone Lazzaroni è fallito.

Si noti della prima immagine lo stile: è trionfale (accanto al cartiglio con scritto VNIVERSITA' abbiamo infatti due aquile, simbolo imperiale), eppure leggero (gli altri elementi decorativi hanno un aggetto e un'invadenza minimi, ovvero sporgono poco e ci sono solo per movimentare la facciata; il cromatismo anche è molto delicato).
Nella seconda immagine quanto detto sopra diventa anche più evidente: se fosse presente in quella nicchia una statua, o se al posto del cemento si fosse usato il marmo, saremmo di fronte a un'opera solenne e maestosa, anche se forse un po' eccessiva come il Palazzo di Giustizia a Prati. La loro assenza rende questa partizione architettonica un puro pretesto decorativo, per niente disturbante alla vista e anche piuttosto piacevole.
Qualcuno potrebbe fantasticare su uno spirito borghese dell'arte sabauda, che rifugge i simboli antichi ma che mantiene le forme come sfogo immaginativo. Più prosaicamente, mi fanno notare, potrebbe trattarsi di semplice necessità di fare economia...
Tra le due ipotesi io preferisco la seconda!


venerdì 5 settembre 2014

Piccola cartolina da via Varese (in attesa di un post lungo).

Cari amici,

l'Autore di Stile Eclettico Romano in questo momento affronta un momento di stanca creativa per quanto attiene al blog, una mole di cinque esami onde concludere il suo percorso triennale all'università, alcuni problemi personali e la grande fatica di studio e ricerca per la tesi di laurea e per la sua scrittura. Tutto allo stesso tempo.
Stile Eclettico Romano mi diverte parecchio, come tutti sapete, ma naturalmente a esso posso dedicare solo scampoli di tempo, senza nemmeno la certezza che i miei scritti siano altrettanto interessanti/utili come lo erano nel passato.
Ma va bene così, io non abbandono né cederò il mio ruolo ad altri. Non vi preoccupate. Posterò meno e più brevemente: tutto qui.
Il progetto continua e ha sempre lo stesso fine.


La cartolina di oggi è solo un'istantanea di una zona segreta, e per questo ancora piuttosto ben conservata per essere in una delle zone più degradate di Roma.
Parlo del quadrante tra viale Castro Pretorio e la Stazione Termini, via Solferino e via del Castro Pretorio [sic]: è una zona riparata, tutta a villini, pochissimo toccata dalla speculazione edilizia.
Qui vediamo un lacerto di come fu intesa Roma nel piano del 1909 di Edmondo Sanjust di Teulada: la Capitale si voleva estesa verso est, con alternanza regolare di villini e palazzi d'abitazione, con spazi verdi. E' quasi sorprendente per me osservare questo luogo: qui quasi tutto si è conservato e la modernità, per quello che ne ho potuto osservare, ha inciso pochissimo. Per fortuna. E quanto è rimasto testimonia una grazia, una lungimiranza e una cura che oggi sembrano alla nostra mente, che ha fatto esperienza di decenni di politica scadente, quasi quinte sceniche di un teatro di posa di Cinecittà.
Eppure è tutto vero.

Siamo a un passo dalle vie e dalle zone più "suq" di Roma, eppure qui solo da pochi dettagli ci avvediamo di essere nella Capitale d'Italia. Il posto è persino silenzioso.

Dopo ogni esame il cui esito mi lasci soddisfatto amo passeggiare tra queste strade e perdermi nello scrutare tutti i dettagli di queste architetture, nell'assaporare i profumi delle piante che dai giardini dei privati sembrano quasi salutarmi con i loro rami "evasi" dalle recinzioni.

In questo scatto abbiamo l'incrocio tra via Varese e via Vicenza: in fondo la basilica del Sacro Cuore, voluta da san Giovanni Bosco, dove lo  e sede di importanti scuole salesiane, la cui Madonna in simil-oro cattura da via Giolitti a quasi viale del Castro Pretorio il nostro occhio e magari ci fa anche un po' sorridere per l'eccesso di quella scelta decorativa.

Il palazzo alla nostra sinistra, invece, il cui architetto ha sicuramente guardato molto Michelozzo e il Quattrocento fiorentino, doveva essere la sede di una "Società Italo-Francese", che ringraziò il Ministro dell'Istruzione, intellettuale neoguelfo e amico del Manzoni, Ruggero Bonghi (qui:  http://it.wikipedia.org/wiki/Ruggiero_Bonghi).
Dettaglio notevole: la data è Ab Urbe Condita e non Dopo Cristo: siamo pur sempre negli anni del mangiapretismo monarchico :)

Notevole il ritratto quasi a tutto tondo del Bonghi e lo strabordare della decorazione fuori dalla superficie del palazzo.


Se tutto va bene, ci rivediamo qui dopo il 10 ottobre.
Grazie per la pazienza!

venerdì 9 maggio 2014

Cartolina eclettica: l'artista Iride.

L'autore di Stile Eclettico Romano è un flaneur: viaggia per Roma e scrive qui ciò che più lo colpisce, riservando studii più scientifici ad altre destinazioni ancora, ahinoi, al di là da venire.
Per questo motivo ritiene molto opportuna una diversione dall'architettura per recensire una giovane artista, le cui opere hanno molto colpito il suo occhio. Il suo pseudonimo è Iride e potete trovare le sue opere qui  https://www.facebook.com/iride.artworks?fref=ts.
Iride, o Alessia, è una giovane pittrice di ventitré anni e una surfista; ama molto Alphonse Mucha e la pop art e gestisce con suo padre un "surf-pub" nel rione Monti chiamato "Il Bracolo", nel quale sono esposti diversi quadri: suoi e di altri artisti, a quanto mi risulta. E' inoltre parte dei 100 pittori di via Margutta.

Si forma in un contesto decisamente accademico come l'Accademia di Ripetta, ma poi sceglie di continuare come autodidatta. L'arte che produce è pertanto un interessante connubio tra il liberty e la pop art, con più di un riferimento alla fotografia e, per ciò stesso, alla contemporaneità.

Un quadro che compendia bene lo spirito eclettico di Iride è questo ritratto di "Fabrizia".
La giovane fanciulla è inequivocabilmente nostra contemporanea: lo dimostrano gli occhiali molto grandi, lo sguardo consapevole della propria femminilità, l'abbigliamento e l'acconciatura.
Tuttavia Fabrizia diventa un'icona atemporale nel momento in cui gli accenni di realismo iniziano a venir meno e Iride sceglie di ripiegare, come è prassi nel Liberty, sulla linea e sui colori accesi.
[Lichtenstein,Roy+-+M-maybe+1.jpg]
Ciò che, però, la conduce sulla strada del pop è la perdita di qualsivoglia traccia di ombreggiatura, come in Roy Lichtenstein, e la concentrazione sull'espressione: riducendo tutto a un discorso di linee e colori accesi, tra i quali spiccano i penetranti occhi azzurri della modella, riceviamo l'impressione di una ragazza tanto femminile quanto decisa.
Ad agevolare questo incontro, apparentemente fecondo, con il pop è l'uso del computer, come si può notare dall'acconciatura di Fabrizia. La mia è tuttavia un'ipotesi, purtroppo.
Il risultato finale è, a mio parere, efficace.
L'arte contemporanea, non mi vergogno a dirlo, mi risulta quasi completamente indifferente. Soprattutto nel contesto della nostra città. Iride, tuttavia, mi colpisce perché ha delle idee, e questo è molto interesse; ma non solo: ha anche una tecnica che, quando maturerà pienamente in un senso maggiormente personale, darà soddisfazioni enormi a tutti quanti. Si guardi per esempio questa tela in cui sono compendiati  vari motivi, sia fotografici che liberty: l'effetto che se ne trae è di straniamento, quasi surrealista (anche se non credo fosse questa l'intenzione dell'autrice).

Molto spesso capita, o perlomeno pare che capiti, che lo stile dell'artista si leghi indissolubilmente con la sua vita.
Iride, come scrivevo all'inizio, è una surfista appassionata; e come ogni brava sportiva che si rispetti ha un atteggiamento, diretto e privo di artifici. Ama e vive la semplicità e in questo tempo straniante ha trovata la sua dimensione. Almeno apparentemente.

Una tale congiunzione tra pensiero e azione si traduce necessariamente in un compromesso fra le sue passioni, tra cui c'è senz'altro il liberty, e la realtà del nostro XXI secolo, che è il pop.

E questo, a mio avviso, rende la sua arte molto interessante e degna di essere seguita: non parliamo, infatti, di un'artista che copia, ma di una capace di rielaborare e di citare, anche se a un livello ancora molto embrionale, come è naturale che sia, data la sua giovane età.

Un ultimo aspetto che ritengo degno di approfondimento è la sua estrema capacità di adattarsi al design: tutte le immagini che ho mostrate finora, benché siano un timido accenno rispetto al suo corpus principale, rivelano un certo talento più per la decorazione che per l'illustrazione, la quale non esclude comunque la possibilità di disegnare gli esseri umani.
Quest'opera, che non mi sembra tuttavia di design, rivela una certa scioltezza nel trattare il colore e nell'interpretare il dato fotografico: come opere d'arte sulla falsariga della tradizione "da cavalletto" può essere incompleta, ma come ipotetico sotto-pentola o piatto diventa molto affascinante perché l'artista ha reso interessante, e ispirante (visto il sorriso), un oggetto di per sé insignificante.
Possiamo capire meglio il suo talento nel design in questa immagine:


 Gli stilemi del liberty vengono riprodotti molto fedelmente, ma poi subiscono una decontestualizzazione tale da divenire semplici abbellimenti senza alcun significato se non quello di "arte per arte" e nell'insieme l'effetto decorativo è quasi impeccabile, oltreché evidentemente curato con attenzione.
Notevole è inoltre lo sforzo per rendere la calligrafia dell'epoca.
Quest'opera, pur non essendo pubblicitaria, mi colpisce per la capacità di riempire completamente e piacevolmente la superficie della tela e per la modella nel registro inferiore. Il suo sguardo penetrante e pienissimamente consapevole della sua sensualità femminea ci devono far capire che la modella è senz'altro ancora vivente. Notevole l'intreccio di ali di farfalla alla sua destra.
Invito i miei lettori a rivolgere un'ulteriore sguardo al dipinto perché i toni liberty qui sono meno marcati e ancor più forte emerge la pura autorialità di Iride, che rivela dei caratteri tipici come un particolare trattamento dei volti, che non riesco a discernere se sia figlio di una scelta espressionistica o di una negligenza. Lo ammetto.
 Volendo concludere l'intervento, mi sia concesso di trattare questo delizioso dipinto chiamato "La danse de l'amour", ossia "La danza dell'amore": due amanti si baciano in ginocchio sotto a un lampione in abiti antichi; una donna, evidentemente moderna (si guardi al costume da bagno), si libra nell'aria dopo aver saltato; un'altra tiene tra le mani la luna. Al di sotto si estende la città, o così mi pare, avvolta dalle tenebre.
Anche qui siamo di fronte a un'immagine composta, anche qui la sensazione che ci troviamo a provare è di straniamento, anche qui l'artista si concede timidi accenni di surrealismo, anche qui il pop ha il suo buon ruolo.
Di vero pregio è soprattutto la figura femminile in primo piano: si noti la bella articolazione del suo corpo, anche se forse il bacino appare un po' troppo abbreviato, soprattutto nel rappresentare le gambe. La modella è una donna, ma qui è pura fisicità, quasi come se fosse il suo corpo in funzione dell'espressione del salto e non viceversa. E se questo non bastasse, provvedono quei fiori bianchi allungati oltremodo sullo sfondo a enfatizzare, riecheggiandolo, il movimento della giovane modella-bagnante. In un certo qual modo, infatti, la curva della sua schiena riecheggia quella dello stelo dei fiori.

Conclusione.
Se la giovane Iride continuerà a sviluppare la sua tecnica, liberandosi dalle eccessive stilizzazioni, non dimenticando mai la sua predisposizione per il design e maturando un tocco più sensuale e personale, possiamo star certi che la sua, progressivamente, potrebbe diventare un'arte interessante e degna di essere presa davvero in considerazione.
Ma per arrivarci dovrà davvero tanto studiare e lavorare: non perché sia scarsa, ma perché il cammino per diventare un artista completo e "serio" è davvero lungo, soprattutto quando si opera in un campo come il figurativo, ove già è stato detto quasi tutto, e ancor di più quando si lavora nel liberty, che è uno stile legato a una determinata contingenza storica.
Cionondimeno, al momento l'artista è senz'altro da tenere d'occhio e da lodare per la sua originalità e la sua promettente tecnica: spero che ci riservi ancora altre opere.

Spero che sia risultato un intervento interessante e se vi è piaciuto fatemelo sapere: cercherò, dunque, nel tempo libero, tra una sessione e un'altra, altri pittori.

martedì 6 maggio 2014

Cartolina eclettica: l'arte del Concilio Vaticano II.



Bentornati, carissimi amici. Chi vi scrive oggi sottopone alla vostra attenzione un nuovo tipo di intervento: la "cartolina eclettica". Non essendogli possibile, infatti, scrivere interventi troppo lunghi a causa degli impegni universitari, la forma breve per esprimere il suo pensiero risulta la più desiderabile.
L'autore di questo blog sceglie di cominciare con un tema tanto spinoso quanto, apparentemente, irrilevante: le modifiche apportate ai luoghi di culto cattolici dopo l'ultimo concilio, il Vaticano II.

Il presbiterio di San Tommaso Moro.
"Il Concilio Vaticano II è stato il 1789 della Chiesa!" Così affermava con soddisfazione il cardinale Suenens, che di questo Concilio fu uno dei massimi campioni.
Non interessa a noi, tuttavia, discernere se egli affermasse o meno il vero a livello dottrinale. Simili argomenti devono essere lasciati, per onestà, ai teologi.
Ciò che invece può incuriosirci è verificare se questa affermazione abbia o meno una fondatezza a livello materiale, quindi artistico. A tale proposito giunge particolarmente opportuno il presbiterio della chiesa sanlorenzina di San Tommaso Moro.

Osservandolo con occhi quanto più possibile virginei notiamo che nulla c'è di strano: l'altare è a mensa, con i fiori, il presbiterio è collegato agevolmente alla navata, il leggio con il suo telo è presente naturalmente tra la zona dei sacerdoti e quella dei fedeli (chi non ha presente la possibilità, diventata regola, per i laici di leggere l'Epistola di san Paolo?) e dietro c'è il vecchio altare, in secondo piano di nome e di fatto.
Il sospetto inizia a coglierci quando confrontiamo l'edificio con la chiesa di Trinità dei Pellegrini, officiata dalla "tradizionalista" Fraternità Sacerdotale San Pietro.
Notiamo che qui l'altare a mensa manca, il presbiterio è separato e reso formalmente inaccessibile ai laici da una balaustra, usata per ricevere la Santa Eucarestia in ginocchio, non c'è alcun leggio e l'unico altare è decorato molto sontuosamente (è la ricorrenza del Santo Nome di Gesù).
Cosa è accaduto?
Per capirlo giova andare alla chiesa anglicana di San Paolo entro le mura.
Come nella chiesa di San Tommaso Moro notiamo l'assenza della balaustra, l'altare a mensa, la presenza del leggio (qui sono addirittura due!). Anche qui manca il Tabernacolo, che invece a Trinità dei Pellegrini è al centro dell'altare ed è fronteggiato dal sacerdote celebrante: e se c'è (non sono praticissimo di quel luogo di culto) è in totale irrilevanza... del resto gli Anglicani non credono nella Transustanziazione come i cattolici, quindi la necessità di un luogo dove Cristo sia realmente presente è decisamente limitata solo alla High Church, che non a caso è assai prossima a quella cattolica nelle convinzioni e nei riti e ha regalato alla Chiesa Cattolica san John Henry Newman.
Anche qui sono presenti i fiori quali unica decorazione dell'altare.

Ancor più straniante è il confronto con questa stampa, raffigurante una celebrazione in un tempio calvinista. I figli spirituali di Giovanni Calvino negano completamente, a quanto mi risulta, la Transustanziazione e infatti non esiste il Tabernacolo; l'altare è poi una semplice tavola e l'unica rilevanza è data alla tribuna del predicatore e al leggio con la Parola di Dio.

Chiunque, dopo aver visto queste due immagini (ma tante altre ce ne sarebbero!), si domanderebbe con un certo stupore cosa sia successo alla Chiesa cattolica, che da Exurge Domine al 1963 aveva considerato i Protestanti come eretici destinati all'inferno, prendendo da loro le più estreme distanze, come dimostra questo gruppo scultoreo dal Gesù di piazza del Gesù a Roma, raffigurante la Religione cristiana che vince le eresie.
Il Concilio Vaticano II (http://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_decree_19641121_unitatis-redintegratio_it.html), per la prima volta, aveva impostato come problema grave la riunificazione delle varie confessioni cristiane, proponendo un incontro "a metà strada".
Non a caso, già nel 1965 monsignor Annibale Bugnini, il vescovo padre della Messa in lingua corrente, aveva espresso sull'Osservatore Romano il "desiderio di scartare ogni pietra che potesse costituire anche solo l'ombra di un rischio di inciampo o di dispiacere per i fratelli separati" ("La documentation catholique, n. 1445 (1965), col. 604) dalla liturgia. Per questo motivo quando Paolo VI volle riformare ulteriormente la liturgia, nel 1970, vennero chiamati a collaborare con Bugnini dei teologi protestanti, i quali sembra partecipassero attivamente.

L'innovazione non toccò semplicemente la liturgia: giacché le chiese erano largamente adattate al Concilio di Trento, che le voleva come dei "catechismi in pietra" ed era stato convocato in funzione antiprotestante, occorreva adattarle alla partecipazione attiva del popolo e all'innovazione della concelebrazione, che però c'era dal 1965.
Vennero pertanto rasi al suolo gli altari laterali nelle chiese più moderne o non vi si celebrò più e vennero de facto sconsacrati giacché c'era un'unica concelebrazione (è obbligo del sacerdote celebrare ogni giorno una Messa); con loro vennero meno le balaustre tra presbiterio e navata e l'altare venne distaccato e il vecchio venne o distrutto o abbandonato; il Tabernacolo, infine, rimase o dove era sempre stato, o venne messo a lato dell'altare o venne messo in un'altra cappella, a volte molto lontano dall'altare, o nella cripta.
Nell'affermare questo siamo supportati dall'Ordinamento del Messale Romano del 1970, modificato al 1983, che potete leggere qui:  http://www.maranatha.it/MobileEdition/T01-Ordmessale/b1/5page.htm

A San Tommaso Moro cosa è accaduto? Il Tabernacolo è stato spostato nella cappellina a destra dell'altare, tralasciando la precedente Cappella della Reposizione, ove si spostava al Giovedì Santo.
Probabile Cappella della Reposizione.
La balaustra è stata distrutta è un pezzo è stato salvato per farci l'altare e un altro per fare da supporto a una statua della Vergine nella navata sinistra.

Quando ho sottoposto a un amico frate i miei dubbi su questo stile liturgico, che sono di natura essenzialmente artistica (se un architetto aveva pensato la sua chiesa secondo un certo equilibrio di forme, perché andarle a modificare?), egli mi ha spiegato che l'intento era di porre l'attenzione del fedele esclusivamente sull'azione liturgica. In un certo senso ha ragione: con l'altare rivolto al popolo il sacerdote, se il Tabernacolo fosse rimasto nella sua locazione originale, avrebbe dato le spalle a Gesù in persona e il fedele avrebbe senz'altro smarrito la sua attenzione tra Cristo-nel-Tabernacolo e Cristo-nell'Ostia-della-Messa.

Conclusione.
Al di là delle implicazioni teologiche, che non sono di nostro interesse, gli adeguamenti conciliari risultano particolarmente invasivi e finiscono per mutare profondamente il senso architettonico originale delle chiese, non senza qualche eccesso, come per esempio nel presbiterio della Chiesa di Ognissanti.
Architettonicamente risulta molto difficile poter parlare di continuità con il passato in casi come quello di San Tommaso Moro o di Ognissanti, anche se l'adeguamento liturgico della prima chiesa non è stato poi così estremo: le chiese così rinnovate saranno pure "nobilmente semplici", ma comunicano una sensazione di forte squilibrio proporzionale e spaziale.
Se i teologi si preoccupano delle problematiche legate alle presunte ambiguità dell'ultimo concilio cattolico, noi non possiamo non domandarci come sia possibile che la Chiesa sostenitrice di Michelangelo e Raffaello possa peccare così clamorosamente di cattivo gusto cinquecento anni dopo.

So bene che quanto ho riportato risulta, in mancanza di foto, difficilmente comprensibile e credibile. Mi si conceda allora di citare il caso del presbiterio di Ognissanti sulla via Appia Nuova.
In questa foto osserviamo la prima Messa celebrata in italiano nel 1965, da Paolo VI in persona.
Come avevo già scritto, questa chiesa è un gioiellino neoromanico dell'epoca di san Pio X e quindi la zona presbiterale, come si può notare in questa immagine, rispecchia particolarmente la natura eclettica dell'epoca.
Si noti comunque che il Tabernacolo già è stato tolto e il nuovo altare: anche se la Messa è ancora, formalmente, "tridentina", la separazione tra fedeli e sacerdote è venuta meno, l'altare è a mensa ed è vuoto, in puro legno, così come il leggio, che finalmente appare, in legno pure lui.
Possiamo però notare ancora una certa fastosità "tridentina", giacché i cristiani a Dio hanno sempre tributato solo il meglio, persino san Francesco.
Questa è la chiesa oggi
Tutto quello che c'era prima è stato raso al suolo: al suo posto un altare-mensa in quello che sembra cemento armato, le sedie-trono (notare la foggia "cornuta") per il celebrante e i concelebranti, un leggio a colonna mozzata. Il crocefissino dell'altare del 1965 è ora più grande e sopraelevato.
Alla piacevolezza dei materiali come il travertino, il ferro e la stoffa (e persino il legno) si è sostituita la freddezza del materiale pietroso grigetto e la nobile semplicità ricorda molto di più una nullificazione.
Sono sorpreso che un simile adeguamento sia stato permesso... Mi è stato addirittura raccontato che prima Ognissanti aveva, se ben ricordo, quattordici altari laterali, essendo chiesa di un ordine con tanti consacrati: oggi sono scomparsi e rimane solo il gruppo dell'Addolorata, dono di san Pio X.
Autore di questo adeguamento negli anni Ottanta monsignor Andrea Gemma.

A volte l'innovazione e la futuribilità possono essere buone e lodevoli, ma non dovrebbero mai farsi iconoclaste. E questi adeguamenti liturgici sono veri e propri iconoclasmi. Anche se si è ferocemente progressisti, le opere antiche sono testimonianze del passato e del suo modo di essere: cancellare ciò che era rende fragile ciò che è, come ciò che sarà. E per affermarlo non serve essere cattolici.

lunedì 10 febbraio 2014

Piazza Vittorio Emanuele II: addenda e corrigenda.

Rileggendo il mio primo intervento mi sono accorto della mancanza di alcuni fondamentali dettagli, che aggiungerò ora come indispensabile corredo.

Gaetano e Joseph Anton Koch?

Ritratto di Gaetano Koch ad opera di Giovanni Capranesi dall'Accademia di San Luca.
L'architetto Gaetano Koch, come si vede da questo ritratto, non era affatto di razza latina: suo nonno era Joseph Anton Koch, nato nel Tirolo austriaco nel 1768. Egli è importante perché fu, nei suoi anni, un pittore molto affermato (ancora oggi esiste un suo ritratto presso il Caffè Greco), amico caro di Bertel Thorvaldsen (con cui condivise l'alloggio a via Sistina) e punto di riferimento, sia per le sue doti di paesaggista (era contadino figlio di contadini) sia per le sue doti compositive, per tutti i Tedeschi a Roma e soprattutto dei Nazareni di Friedrich Overbeck, con i quali lavorò alla decorazione del casino Massimo nel 1819.
Paesaggio con arcobaleno di Joseph Anton Koch.
A lui fu affidato il ciclo di affreschi raffiguranti la Divina Commedia: è notevole evidenziare come egli lavorasse ad affresco per la prima volta in questa occasione, a quanto mi si riferisce, alla bella età di 57 anni ed è notevole evidenziare la forte qualità espressiva del suo stile.

Il figlio Augusto gli diede poi per nipote Gaetano Koch. Egli fu accademico di San Luca e, a quanto mi risulta ( http://books.google.it/books?id=KOy_q2HIzgMC&pg=PT347&lpg=PT347&dq=gaetano+koch+accademia+di+san+luca&source=bl&ots=D4ECIWa3M6&sig=EJN5s2edxSKb1EAAi0E75kuV_4M&hl=it&sa=X&ei=xrz4UrTSCeOG4gSy24GwAw&ved=0CGwQ6AEwBw#v=onepage&q=gaetano%20koch%20accademia%20di%20san%20luca&f=false ), cominciò a lavorare appena laureato, nel 1872 (...poteva già aver edificato un edificio a 21 anni?).
Lo ricordiamo inoltre come l'architetto di Piazza dell'Esedra, oggi Piazza della Repubblica, e come uno dei condirettori, assieme a Manfredo Manfredi e Pio Piacentini, dei lavori per l'Altare della Patria dopo la morte del suo progettista, Giuseppe Sacconi.

Colpisce molto la differenza che passa tra nonno e nipote: bucolico, fantastico ed espressivo il primo; razionale costruttore, eclettico decoratore e "moderno" il secondo. Se si vuole intendere almeno un po' lo shock anafilattico che fu l'arrivo dei Savoia per la Roma del Papa-Re si confrontino i due personaggi.

Addenda et corrigenda.

Non ho enfatizzato abbastanza l'importanza che rivestì Piazza Vittorio Emanuele II per il programma edilizio della Roma sabauda.

Lo sbancamento della collina: il caso di Sant'Eusebio.
A Roma le ambizioni edilizie dei sovrani che volevano manifestare chiaramente il "nuovo corso" rappresentato dal loro regno si è sempre scontrato, sin dall'epoca più antica, con la conformazione dei sette colli: come non ricordare ad esempio lo sbancamento della Sella Quirinalis, che connetteva Quirinale e Campidoglio, per costruire il Foro di Traiano?
Stessa cosa fecero i Piemontesi a Roma: il colle Esquilino, come si nota ancora oggi, non ha una forma molto regolare e questo disturbava particolarmente i progetti edilizi per l'edificando quartiere residenziale, che doveva essere il più comodo possibile e doveva permettere la maggiore monumentalità possibile. Si ricordi che la Roma di Pio IX non aveva una borghesia organizzata e che la monumentalità del Campo Marzio era spiccatamente aristocratica, finalizzata all'annichilimento del singolo di fronte al Papa-Re e alla sua Corte (mai più appropriata fu la frase di Alberto Sordi nel Marchese del Grillo: "Perché io so' io, e voi nun siete un cazzo!"): come fece presente anche Giuseppe Ungaretti nel parlare della sua poesia, una architettura urbana di questo tipo tende a rendere insignificante ogni tentativo di cambiamento o di innovazione: la Roma di Pio IX è un perfetto microcosmo autosufficiente.
I Savoia voglio spezzare questo monismo e l'unico modo è creare una seconda Piazza del Popolo potenziata (si noti: Piazza Vittorio ha un doppio tridente di strade che partono dai suoi lati brevi) che parli però un linguaggio eminentemente borghese e che mostri la borghesia come la nuova aristocrazia del Regno (chi non ricorda Il Gattopardo e l'analisi lucidissima dell'evoluzione della società?).

A chi oggi volesse cogliere cosa resta del vecchio colle non resterebbe che osservare il pino presente sui "Trofei di Mario" e constatare quanto sia sopraelevato rispetto al terreno e la chiesa di Sant'Eusebio, la cui scalinata è decisamente sabauda:
Ah, la chiesa prima dell'arrivo dei Piemontesi sorgeva in posizione isolata...
Questo dovrebbe far capire che in effetti una chiesa a Piazza Vittorio Emanuele II c'è, ma che effettivamente è talmente ben nascosta da non notarsi quasi mai.

Piazza Vittorio come era + un confronto con Piazza Statuto a Torino.
Risulta infine opportuno, per capire davvero il valore artistico di Piazza Vittorio, ricordare come era e confrontarla poi con Piazza Statuto, anche essa ripresa come era, nel lontano 1865.

Come si può ben notare le due piazze appaiono decisamente molto simili: c'è però da notare la maggiore varietà, piena di romanità, di Piazza Vittorio e la più proporzionata regolarità di Piazza dello Statuto.
Personalmente trovo molto più bella Piazza dello Statuto: non solo per la maggiore varietà cromatica, ma anche per la migliore coerenza stilistica (non tutti i matrimoni, in effetti, finiscono bene) e per la migliore moderazione, tipicamente piemontese e tipicamente in concordanza con il resto della città.
Sospetto che, oltre a Koch, gli altri artefici di Piazza Vittorio fossero decisamente dell'Italia Centrale: ciò spiegherebbe l'effetto dello stile così particolare della piazza, tipico di chi parla un linguaggio che non gli è proprio e lo adatta alla propria fonetica nativa.
Ma queste sono solo ipotesi.
Il punto a favore della Piazza Vittorio è il giardino, di cui parleremo nella terza puntata.

domenica 9 febbraio 2014

Piazza Vittorio Emanuele II: la storia e i palazzi di Gaetano Koch.

Ricomincio il mio blog apponendo una sorta di conclusione (anche se l'argomento non è affatto esaurito) alla "Suite esquilina", che ci ha accompagnati nel corso della scorsa estate.

Piazza Vittorio Emanuele II, o semplicemente "Piazza Vittorio", è la conclusione più adeguata possibile.
Proprio oggi ho realizzato questo reportage e quando l'ho concluso avevo il cuore esaltato, scaldato e spezzato al tempo stesso. Alla fine del nostro viaggio capirete perché.

Storia.

Quella che oggi appare come una delle piazze più devastate di Roma un tempo era uno dei luoghi più chic e all'avanguardia della città: una piccola Parigi per una piccola capitale che sognava di diventare grande, grandissima.
Non mi crederà mai alcuno, ma il progetto di via Nazionale e dell'Esquilino fu sviluppato consultandosi con il barone Hausmann, l'autore dei boulevard parigini.
Questa cartina ricorda a tutti la regolarità estrema dell'impianto stradale.
 Piazza Vittorio, in particolare, è la prima piazza romana a NON includere chiese: è un evidente sintomo della rinomata ostilità, negli ultimi decenni dell'Ottocento, tra il Papato e il neonato Regno d'Italia, considerato a tutti gli effetti come un occupante da chi all'epoca occupava il Soglio di Pietro.
Ulteriore segno di sfida sta nelle dimensioni: è la piazza più grande della Roma umbertina (316 x 174 m): molto più di Piazza San Pietro prima degli sventramenti fascisti.

La costruzione di Piazza Vittorio, e di tutta la zona fino a via Nazionale, è l'impresa più grandiosa della Roma di Umberto I: tutto comincia con il piano regolatore del 1873. La Roma di Pio IX è una città piccola, aggrovigliata nelle sue strade, tutte localizzate nel Campo Marzio, e malarica, tanto: i Savoia con quel piano regolatore impiantano ex abruptu la mentalità positivista nella città più immobile di sempre.
Camille Corot, 1826, Veduta di Roma dai giardini Farnese.

I soldi sono pochi, ma la volontà e l'ambizione tanto abbondanti e così si chiede aiuto al barone Haussmann, che pochi anni prima aveva riservato a Parigi lo stesso trattamento, e questi consiglia di circondare la città antica di nuovi quartieri dirigenziali e moderni, sventrando dove è possibile anche all'interno. Nessuno però se la sentì di calcare la mano nel Centro e così si aprirono strade meravigliose e alto-borghesi come corso Vittorio Emanuele, via Arenula, viale Trastevere, le quali però ancora oggi hanno l'aria di quinte teatrali giustapposte a un ambiente non loro. Fu il Fascismo a sventrare davvero il Centro, come ben si sa.

A quanto ho avuto modo di intravvedere, la costruzione della nuova Roma comincia dal quartiere de Merode (quel tratto di via Nazionale tra Piazza Venezia e largo Magnanapoli) e continua parallelamente tra via Nazionale e l'Esquilino.
In un contesto di abnorme speculazione edilizia (i palazzinari esistevano già all'epoca!) la costruzione di Piazza Vittorio Emanuele fu affidata al giovanissimo architetto Gaetano Koch (1849 - 1910).
Koch è il gentiluomo a sinistra. Al centro c'è Pio Piacentini (padre del famosissimo Marcello e autore del Palazzo delle Esposizioni) e a destra c'è Manfredo Manfredi (autore, tra le altre cose, del Palazzo del Viminale).
Quando i lavori per la Piazza cominciano (ché di questo solo c'interesseremo) l'architetto ha 35 anni: è giovane e lavora per la Società per l'Esquilino. A quanto mi risulta suo è il disegno della Piazza e specificatamente suoi sono i due palazzi centrali dei suoi lati lunghi.

Stile (in generale).

Nel periodo della ricerca di uno stile nazionale che potesse servire da "catechismo visivo" per l'unificazione anche dei cuori (Fatta l'Italia ora restano da fare gli Italiani rimane un detto valido, a mio parere, ancora oggi), Gaetano Koch sceglie l'approccio tosco-romano, calato però in una visione piemontese.
Non deve stupire questo: i destinatari di questi quartieri sono borghesi e funzionari che hanno seguito il Re da Torino passando per Firenze.

A tale proposito può risultare utile un confronto tra Piazza dello Statuto a Torino, Piazza dell'Indipendenza a Firenze e la nostra Piazza che può agevolmente essere effettuato su Google Maps.
Noterete che, nonostante le differenze, c'è una certa continuità stilistica e di volontà di traduzione in termini lineari del linguaggio architettonico aristocratico.

La stessa borghesia che abitò a Firenze e la lasciò per seguito Vittorio Emanuele II, arrivata a Roma, poté scoprire un particolare gusto per l'ornamento classicheggiante - questo, sì, tipicamente romano - e il risultato è particolarmente: al di là della bellezza dell'idea e della qualità del lavoro, a noi contemporanei rimane come primo colpo d'occhio la retoricità inconcreta di questi luoghi, che oggi sembrano quinte teatrali di un teatro in rovina.

Analisi.

Studiando Piazza Vittorio e l'Esquilino in generale si deve tenere a mente che il nucleo più antico è nato grazie alla speculazione edilizia che sopravanzava addirittura la pianificazione del piano regolatore, che veniva poi aggiustato di conseguenza. A quanto mi risulta, Roma avrebbe dovuto mantenere la sua cintura di ville suburbane, tra cui c'era anche Villa Palombara, che sorgeva proprio dove ora c'è la Piazza. Invece è stata lottizzata e sbancata e il risultato è quello che vediamo oggi.
Questa speculazione era protetta dalla Banca Romana: quando nel 1893 essa fece crack (ne parleremo nel post su Villa Lazzaroni) l'intero sforzo edilizio romano andò in frantumi e molti cantieri rimasero a metà e larga parte degli edifici costruiti rimase senza servizi. L'Esquilino fu uno dei posti più toccati da questa tragedia e così i borghesi cominciarono lentamente a trasferirsi a Prati.
Ciò può spiegare, in un certo qual modo, perché oggi la zona è così degradata e di quei piemontesi più nessuno è rimasto. Ma non basterebbe, in effetti, perché poi la zona conobbe un rilancio ai primi del Novecento fino all'epoca fascista, anche se perse molta della sua aria raffinata, diventando progressivamente più popolare (ma mai troppo popolare).

Volendo riservare ai miei lettori solo il meglio, limiterò la mia analisi solamente agli edifici più interessanti e, se è possibile, inserirò più di un confronto prima-e-dopo servendomi del sito "Roma Sparita".

Lato lungo est: visione generale.
 Osservando con un unico colpo d'occhio il lato lungo est possiamo notare che nei due complessi che sono riuscito a comprendere nello stesso scatto le facciate sono estremamente movimentate e a dominare è una volontà monumentale, sommamente monumentale: nel palazzo di destra il balcone centrale è così importante da essere sostenuto da un colonnato come se fosse una sorta di fregio templare.

I palazzi di Koch.

Il palazzo di sinistra, opera virtuosistica del Koch, ci offre una articolazione decisamente insolita, "eclettica".

Ciò che rende speciali i palazzi di Gaetano Koch sono proprio sull'attico, in quelli che sembrano spazi da belvedere al coperto, ma che non so precisamente identificare: mi fanno pensare a dei ristoranti (possibile?). E' da notare in ogni caso l'estrema volontà monumentale che pervade quegli ambienti: colonne, timpani, fregi. Il Classico rimane sempre l'unico termine di paragone, anzi di sfida, per chi vuole affermare a livello politico e sociologico qualcosa di nuovo; almeno fino all'inizio del "Secolo Breve".
Dall'altro lato, esattamente opposto, sta il secondo complesso dell'architetto: stilisticamente le differenze sono minime e principalmente sono limitate all'ornato.
Osservando più da vicino ci accorgiamo della estrema raffinatezza della superficie di questo complesso: ogni piano presenta una differente incorniciatura e sotto al cornicione maggiore possiamo persino osservare un elegante fregio ispirato a quello della Farnesina.

Notiamo inoltre nel corpo centrale dell'attico una interessante alternanza di nicchie conchigliate e finestre a tutto sesto.
Avvicinandoci al complesso dal giardino ci accorgiamo in maniera più decisiva che la volontà monumentale è esplicitata anche dalla combinazione del lieve aggetto delle estremità laterali e del corpo centrale con i balconi articolati come fregi templari: le colonne qui non reggono, infatti, un arco, ma i davanzali in un perfetto sistema trilitico alla greca; notiamo infine la piena intenzionalità di questa soluzione dall'uso del bugnato rustico (se ne gusti il ritmo alternato) a coprire i limiti dei corpi sporgenti.
Questi palazzi sono templi di razionalità dove la lezione piemontese, borghese e funzionale, si incontra con la lezione romana, ancora impregnata di neoclassicismo nella sua versione purista e aristocratica e monumentale.
A tale proposito voglio indurre il confronto con Palazzo Salviati e Palazzo Corsini, entrambi alla Lungara.
Palazzo Salviati: è l'uso del bugnato a interessarci particolarmente.

Palazzo Corsini: è l'uso del bugnato unito all'articolazione dei balconi e delle mensole a interessarci particolarmente. Se non mi seguite provate a immaginare al posto delle finestre del piano terreno una fila di archi e al posto delle mensole dei balconi delle colonne...

Decorazioni.

L'occhio è subito catturato dalla ricchezza di decorazione del complesso e soprattutto dalla presenza nella parte superiore delle cornici delle finestre del primo piano, a metà dello spazio, di una testa di Minerva impostata come sorta di pietra di volta da cui partono due festoni.
Inoltre notiamo nei due cornicioni al di sopra l'uso delle onde alla greca e di una decorazione a conchiglie molto particolare, di cui per ora non mi riesce di trovare un parallelo.

Sotto ai portici.

Sotto ai portici osserviamo una certa uniformità: ogni palazzo presenta infatti delle paraste intersecanti un mini-fregio e reggenti archi a tutto sesto; rimangono poi delle lunette dove sussistono delle finestre.
Se l'effetto in generale è molto regolare, quasi banale, Gaetano Koch riesce a renderlo più divertente:
Osserviamo infatti l'uso, al posto dell'arco, di mensole fitomorfiche binate e nei rettangolari spazi intermedi osserviamo l'apparizione del motivo a nastro intrecciato e delle rosette a cassettoni: trattasi di elementi di diretta derivazione classicheggiante che si possono osservare molto agevolmente tra le rovine del Foro o nell'area archeologica tra il Ghetto e il Teatro di Marcello.
Si guardi ad esempio a questo mosaico da Merida:
O quest'altro dagli Horrea Hepagathiana di Ostia:
E questo frammento marmoreo dall'area archeologica tra il Teatro di Marcello e il Ghetto:
La rosetta, comunque, è uno degli stilemi maggiormente utilizzati in assoluto, perlomeno a Roma.

La lineare mobilità del risultato mi pare anticipare a tratti il venturo jugendstil nella sua accezione romana ed è per questo che mi trova dubbioso l'affermazione di una contemporaneità di realizzazione della piazza, perché ciò significherebbe avere un architetto geniale, Gaetano Koch, circondato da architetti più banali e ciò andrebbe in contraddizione, io credo, con lo spirito prammatico e funzionale dei Piemontesi:
Osserviamo infine la grazia lineare con cui delinea gli spazi terminali dei portici dei suoi complessi: laddove il resto del portico non ha volte, qui Koch inserisce delle cupole con tanto di archi a tutto sesto, arricchiti al loro interno dal solito motivo a rosette.


A presto con la seconda puntata.